Il 6 febbraio 2023, un terribile terremoto ha devastato la regione sudorientale della Turchia e della Siria settentrionale ed occidentale. Sono morte oltre 50.000 persone e ne sono rimaste ferite molte altre.
Il Worker Rights Consortium ha redatto un white paper al fine di valutare le risposte di 16 grandi marchi di abbigliamento, che appaltavano parte della loro filiera in Turchia, al terremoto ed il suo impatto sui fornitori e sui lavoratori della regione.
Leggere il report ha rappresentato la fonte di alcune riflessioni che vorremmo condividere con voi.
Il contesto geografico e produttivo in cui è avvenuto il terremoto
La regione della Turchia colpita dalla catastrofe è un’importante sede di produzione di abbigliamento e tessili per marchi e rivenditori globali. Secondo le Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), circa 350.000 persone lavoravano in 3.000 impianti tessili e di abbigliamento nelle province colpite dal terremoto.
Non tutti sanno, infatti, che la Turchia negli ultimi anni è diventata un grande polo industriale per il settore della moda. Tessile ed abbigliamento costituiscono il 17% della produzione totale nazionale occupando 1,2 milioni di addetti (con un’occupazione femminile al 50 per cento). Inoltre, per quanto riguarda l’export, il mercato d’elezione della Turchia è rappresentato primariamente dall’Unione Europea, con una quota del 70 per cento.
Il settore tessile dopo il terremoto in Turchia
Il settore tessile ha dovuto affrontare gravi interruzioni e sfide dopo il terremoto in Turchia. Questo sia a causa dei danni alle infrastrutture che della carenza di manodopera, visti gli alti livelli di sfollamento e di perdita di vite umane.
La ricerca del Worker Rights Consortium
La ricerca del Worker Rights Consortium si è basata su due serie di dati:
- le relazioni dei marchi di abbigliamento al Business and Human Rights Resource Centre (BHRRC) e al Worker Rights Consortium (WRC);
- un’ indagine sui fornitori (n=202) condotta da un team di ricercatori della Middle Eastern Technical University (METU), guidati dalla dott.ssa Derya Göçer e dal dott. and Dr. Şerif Onur Bahçecik.
I marchi oggetto di esame sono stati seguenti:
• Benetton • Marks & Spencer
• Bestseller • Varner
• Boohoo • Tchibo
• C&A • s.Oliver
• Esprit • PVH
• H&M • Primark
• Inditex • Next
• Kiabi • VF
Come sono state valutate le prestazioni dei marchi di moda coinvolti
Le prestazioni dei marchi sono state valutate nel contesto dei principi applicabili in materia di diritti umani e infatti i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani richiedono che le imprese multinazionali “[cerchino] di prevenire o mitigare gli impatti negativi sui diritti umani che sono direttamente collegati alle loro operazioni, anche se non hanno contribuito a tali impatti”. L’adozione di misure per affrontare gli impatti negativi del terremoto di febbraio all’interno delle loro catene di approvvigionamento rientra, pertanto, tra i doveri e le responsabilità dei marchi e dei rivenditori.
Ma sono stati rispettati questi doveri?
In seguito al terremoto l’Ethical Trading Initiative ha invitato i marchi membri ad agire in conformità con le loro responsabilità ai sensi degli UNGP. Attuando pratiche di acquisto che includessero l’anticipo dei pagamenti per le merci ricevute e l’astensione dal richiedere concessioni sui prezzi per i futuri ordini dai fornitori. La Fair Labor Association ha raccomandato ai suoi membri di “valutare la sostenibilità finanziaria” dei loro fornitori e di rendere disponibile l’assistenza finanziaria.
Le risposte dei brand e dei fornitori
Dall’analisi delle riposte date dai 16 marchi e da quelle fornite dai 202 produttori emerge sicuramente un dato positivo. Purtroppo, però, non sufficiente da solo per sostenere l’impatto negativo del terremoto sui diritti umani.
Tutti e 16 i marchi hanno, infatti, tollerato i ritardi delle consegne della merce da parte di fornitori turchi nella zona del terremoto senza penali, cioè senza aggiungere un ulteriore onere finanziario per i fornitori. Questo è in netto contrasto con il comportamento dei marchi all’inizio della pandemia di Covid-19. Durante la pandemia i marchi di moda cancellarono retroattivamente – e rifiutandosi di pagare – gli ordini che erano in produzione o completati, ma non consegnati all’inizio della crisi. In questo modo, i fornitori si ritrovarono a dover pagare centinaia di migliaia o milioni di dollari che erano stati obbligati a investire nella produzione di quegli ordini.
La decisione dei marchi di assorbire i costi dei ritardi causati dal terremoto (anziché chiederli ai fornitori) riflette in parte la crescente consapevolezza che azioni del genere non posso più passare inosservate. Il mancato addebito dei costi del ritardo, in quanto misura isolata, non è stata, però, una risposta sufficiente.
Cosa avrebbero dovuto fare i marchi di moda coinvolti
I brand avrebbero dovuto – e soprattutto potuto – in caso di ritardi negli ordini dovuti al terremoto, adottare una politica che garantisse il pagamento dei fornitori nei tempi previsti.
Questa mancanza, infatti, non ha permesso alle fabbriche di pagare i propri dipendenti in un momento storico così tragico e ha portato 1/3 dei fornitori a mettere in aspettativa non retribuita i propri dipendenti.
Molti fornitori, poi, per paura che si verificasse quanto successo in costanza di pandemia, ha dichiarato di aver continuato a lavorare durante le scosse di assestamento del terremoto. Per paura di pagare penali e, comunque, per vedersi corrisposto quanto dovuto per gli ordini ed il lavoro svolto.
Dall’analisi delle risposte date dai brand emerge che alla domanda “se avessero adottato una politica per pagare il fornitore nel tempo previsto”, solo sette marchi hanno risposto “sì” (Benetton, Bestseller, C&A, Marks & Spencer, Next, PVH, Primark). Mentre otto marchi hanno detto “no” (Boohoo, H&M, Inditex, Kiabi, Tchibo,19 s.Oliver, Varner,20 e VF). Esprit non ha risposto a questa domanda specifica.
L’ analisi condotta dal Worker Rights Consortium ci dimostra come la volontà di cambiare realmente le proprie politiche aziendali sia molto lontana dalla patina di greenwashing con cui si ricoprono le multinazionali della fast fashion. Purtroppo l’interesse verso i lavoratori è sempre all’ultimo posto dei piani di investimento aziendale.