L’industria della moda ed il difficile raggiungimento degli obiettivi dello Sviluppo sostenibile

Articolo pubblicato su Asvis.it il 6 Marzo 2020


L’industria della moda è considerata la seconda industria più inquinante al mondo. È un’industria globale dal valore di 2,4 trilioni di dollari, che impiega circa 50 milioni di persone. 

Il modo in cui realizziamo, utilizziamo e ci liberiamo dei nostri abiti è diventato oramai insostenibile.

Può sembrare peculiare descrivere la moda come una questione sociale, ma i dati relativi all’impatto ambientale ed umano di questa industria sono più che idonei a qualificarla in tale modo. 

Dei 17 obiettivi dello Sviluppo sostenibile numerosi sono quelli che vengono direttamente coinvolti da questa industria, rendendo lampante come sia necessario un immediato cambio di rotta.

1. Porre fine a ogni forma di povertà nel mondo
8. Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti

Con la delocalizzazione delle industrie inaugurata dall’ Accordo Nordamericano per il Libero Scambio (Nafta), i grandi marchi di moda hanno iniziato a commissionare la realizzazione delle loro creazioni in paesi in paesi dove le paghe e le condizioni di lavoro sono più che modeste, le rappresentanze sindacali inesistenti e sono pressocchè assenti norme a tutela dell’ambiente. 

Secondo IndustriALL Global Union più del 90% dei lavoratori dell’industria della moda non ha la possibilità di negoziare il proprio salario e le proprie condizioni di lavoro. Dalle indagini condotte dal movimento internazionale Fashion Revolution emerge come in Guandong, in Cina, le giovani donne facciano fino a 150 ore mensili di straordinari. Il 60% di loro non abbia un contratto ed il 90% non abbia accesso alla previdenza sociale. In Bangladesh i lavoratori che realizzano indumenti guadagnano 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari).

Secondo indagini portate avanti da Clean Clothes Campaign, in Turchia i lavoratori guadagnerebbero tra i 310 e i 390 euro al mese, circa un terzo del salario stimato come dignitoso. 

In tutti i distretti tessili in cui vengono subappaltate le produzioni dei marchi internazionali di moda emerge come la stragrande maggioranza degli operai tessili non riesca a guadagnare un salario dignitoso, che è ciò che permette al lavoratore, in una settimana di non più di 48 ore lavorative, di:

  • provvedere ai pasti per sè stesso e la sua famiglia
  • pagare l’affitto
  • pagare le spese mediche, i vestiti, i trasporti e l’istruzione
  • mettere da parte una piccola somma per le spese impreviste.
5. Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze

L’80% dei lavoratori del tessile sono donne fra i 18 ed i 24 anni. Molte di loro sono sottoposte a ripetuti abusi fisici e verbali, lavorano in condizioni non sicure senza alcuna assistenza sanitaria e con salari bassissimi.

6. Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie
14. Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile

L’acqua è un elemento necessario per l’industria della moda, in quanto tutte le sue fasi necessitano del suo utilizzo, dalla piantagione del cotone ai trattamenti dei materiali fino ai vari lavaggi degli indumenti a casa.

Solo per la realizzazione di una T Shirt servono 700 litri d’acqua. La quantità di acqua necessaria alla produzione di un paio di jeans, invece, è equivalente al fabbisogno di acqua per 100 giorni di vita di una persona che vive in occidente e di un anno di una persona che vive nel sud Sahara.

Un altro enorme danno ecologico collegato alle risorse idriche riguarda lo smaltimento di tutte le sostanze tossiche con cui vengono trattati i capi di abbigliamento. Molte fabbriche, infatti, si liberano delle acque inquinate nelle risorse idriche naturali avvelenando fiumi, mari e acque sotterranee. Il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali dipende dall’industria della moda. La pericolosità di questi scarichi ha effetti negativi sull’uomo, sugli animali e sull’ambiente circostante.

12. Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo

Oggi compriamo più di 80 miliardi di capi di abbigliamento all’anno, il 400% di più che venti anni fa’. Compriamo sempre di più per indossare sempre di meno. Questo approccio ha fatto nascere il sistema chiamato “Fast Fashion”, rendendo i nostri abiti un prodotto “Usa&getta”. 

Secondo un famoso pubblicitario americano “il consumismo significa far sì che le persone trattino le cose che usano come cose che consumano” e così ha fatto la Fast Fashion con i nostri abiti, incoraggiando un sovra consumo e generando un eccessivo numero di capi di abbigliamento da smaltire. 

Dai primi anni 2000 ad oggi la durata dei capi di abbigliamento è diminuita del 36% e oggi i vestiti, scarpe incluse, hanno una vita media inferiore ai 160 utilizzi, una situazione che genera ogni anno 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili nella sola Unione Europea. 

In questi venti anni i vestiti sono diventati sempre più economici e di minore qualità, in tal modo le persone sono indotte a comprare sempre più abiti, che vengono conservati per periodi brevissimi. Si è persa l’abitudine di prendersi cura delle cose, il basso costo e la bassa qualità degli abiti disincentivano il consumatore a mantenere nel tempo questi beni in quanto costa meno ricomprarli che prendersene cura o aggiustarli.

Se la produzione annuale di abiti dovesse continuare a crescere alle attuali velocità, si arriveranno a produrre 160 miliardi di tonnellate di abiti per il 2050. Più di tre volte dell’attuale volume di produzione. Per produrre queste quantità verranno utilizzati 300 milioni di tonnellate di materiali non rinnovabili.

Dove troveremo tutte queste risorse?

15. Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre

L’industria della moda è direttamente collegata allo sfruttamento della terra e al processo di perdita della biodiversità attraverso lo sfruttamento del suolo. Dai campi di cotone ai campi di allevamento di bestiame per la realizzazione del pellame.

La fabbricazione ed il trasporto dei capi di abbigliamento si fonda su numerose risorse naturali ed umane, che sono per definizione limitate.

Basti pensare che la produzione di un paio di jeans si estende per 4 continenti e le varie componentistiche con cui viene realizzato un jeans possono viaggiare fino a 65.000 km, con un evidente impatto diretto sull’ambiente. 

L’industria della moda è uno dei principali utilizzatori di prodotti chimici e a sua volta è responsabile per il 20% dell’inquinamento delle acque e delle emissioni di gas nocivi nell’aria. 

Per cambiare questi dati è necessario un triplo intervento congiunto da parte dei consumatori, dei Governanti e dei grandi marchi di moda.

I grandi marchi di moda devono assumersi le responsabilità di quello che producono e del loro smaltimento.

I consumatori devono capire che non è possibile sostenere con i propri acquisti aziende che producono beni a discapito dell’ambiente e dei lavoratori, devono rallentare il loro ritmo di acquisto. Comprare solo quello che serve veramente, comprare abiti di seconda mano e comprare abiti da chi rispetta l’ambiente ed i lavoratori.

I nostri Governi, infine, devono entrare in azione per mettere fine all’era della moda usa e getta. Devono incentivare le aziende a progettare linee sostenibili, garantire servizi di rammendo, devono garantirci che i vestiti che compriamo siano stati realizzati da persone pagate il giusto, che lavorano in condizioni di sicurezza e senza distruggere il pianeta. Come? I politici redigono le norme che regolano l’economia. Se non ci sono norme che responsabilizzino le aziende per i rifiuti che producono, che non rendano più facile il riuso/riciclo e rammendo, che impongano di rendere trasparenti e facilmente accessibili le informazioni della filiera di produzione di un abito, nessuno lo farà da solo!Come la rivoluzione slow food è stata lenta ma efficace, ci auguriamo e crediamo profondamente che anche la rivoluzione del mondo della 

Cecilia Frajoli Gualdi
Avvocato, appassionata di moda e questioni sociali e ambientali. Il documentario The True Cost le cambia la vita. Si occupa di ethical fashion e analisi delle principali criticità della filiera produttiva dell'industria della moda. Adora scrivere di fatti poco conosciuti. È la fondatrice e presidente di dressthechange.

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