Alleniamo il nostro senso critico analizzando dei casi concreti che ci possono aiutare a capire quando si parla di greenwashing.
Proseguendo il discorso sul greenwashing iniziato definendo il concetto ed i principali tentativi di utilizzo della sostenibilità come strategia di marketing, vi presentiamo alcuni esempi di brand famosi che sono stati accusati di greenwashing.
Lo scopo di questi esempi è di stimolare un senso critico. Nella speranza che, incontrando in futuro un messaggio di questo tipo, non ci lasciamo ingannare dalla comunicazione fuorviante di brand che sono tutt’altro che sostenibili.
Il peccato del compromesso nascosto è il più diffuso nell’industria della moda e implica affermazioni che suggeriscono che un prodotto è green in base ad un insieme ristretto di attributi senza attenzione ad altre importanti questioni ambientali.
Il caso di greenwashing di H&M
Una delle aziende di fast fashion più controverse ed ampiamente discusse anche in tema di greenwashing è H&M.
H&M ha introdotto negli anni una serie di campagne, come la più famosa “conscious” collection, volte a farla percepire dai consumatori come azienda green. Ma le dichiarazioni del marchio sono sufficienti a definire H&M come green?
Queste dichiarazioni e promesse ambientali sono sempre più comuni tra i brand di fast fashion. Ma ricordiamoci che è essenzialmente un paradosso rispetto all’approccio tipico del business model basato su assortimento continuo, prezzi bassi, vendita al dettaglio globale con un impatto ambientale enorme e soprattutto lo sfruttamento della manodopera.
Inoltre, H&M da tempo offre un programma di raccolta di abiti usati affermando di trasformare in nuovi vestiti gli indumenti riportati dai consumatori nello store.
Tale pratica è stata identificata come un’attività di greenwashing in quanto, secondo studi, solo l’1% circa dell’abbigliamento può essere realmente riciclato.
Infatti, la maggior parte dei tessuti che compongono l’abbigliamento tipico del fast fashion è una miscela di diversi tipi di fibre che sono molto difficili da separare una volta mescolate.
Il brand svedese è a conoscenza della percentuale di indumenti che è realmente possibile riciclare grazie all’iniziativa, ciononostante utilizza la campagna “ricicla da H&M” come stratagemma di marketing.
Il greenwashing per Uniqlo e Muji
Uniqlo e Muji, invece, hanno recentemente sponsorizzato come sostenibili i loro prodotti in cotone organico tralasciando e mascherando l’aspetto sociale derivante da questa produzione.
Il cotone organico è, infatti, prodotto nella regione cinese dello Xinjiang dove vengono costretti ai lavori forzati nelle fabbriche di cotone 80.000 Uiguri. Secondo una stima, oltre l’80% del cotone prodotto in Cina, che rappresenta il 20% del cotone mondiale, viene realizzato sfruttando la minoranza etnica uigura.
Il caso di Boohoo
Ancora, Boohoo (e-retailer) nel lanciare la collezione con hashtag #forthefuture afferma di essere “un’opportunità per vestirsi bene e fare qualcosa di buono per il pianeta”.
Il retailer, che opera solamente online, in realtà lancia 100 nuovi prodotti al giorno e i prodotti che definisce sostenibili sono solo 34 in totale, venduti a prezzi bassissimi (circa 4 sterline) e composti prevalentemente da fibre sintetiche.
Inserire nell’assortimento una piccola quantità di poliestere riciclato non rende il brand sostenibile né tanto meno “buono per il pianeta”.
Il greenwashing di Asos
Quando ASOS lancia la collezione composta da 29 pezzi definendola completamente circolare e sostenibile si macchia di greenwashing. Perché la collezione rappresenta solo lo 0,035% dell’offerta complessiva del marchio, composta da 85.000 prodotti e venduta a 23 milioni di clienti in 200 mercati in tutto il mondo.
Questi sono solo alcuni casi delle pratiche di greenwashing adottate dai grandi brand del settore. Siamo, infatti, costantemente vittime della comunicazione menzognera e fuorviante dei brand di moda e ciò compromette sempre di più la possibilità dell’eco-fashion realmente virtuoso di emergere.
Oltre a minare la fiducia dei consumatori, mentendo sulle iniziative green, ha anche un ulteriore risvolto negativo.
Alex Weller, European marketing director di Patagonia, afferma l’esistenza di un vasto utilizzo di termini che anziché mettere in discussione gli acquisti dei consumatori, li rinforzano.
I grandi brand del settore sfruttano semplicemente un’opportunità offerta loro dal mercato: il crescente interesse dei consumatori verso la sostenibilità.
Ma cosa significa realmente la parola sostenibilità? Esistono molteplici interpretazioni del termine. Per un brand che si pubblicizza come sostenibile può significare il ridotto consumo di acqua, ma le emissioni di CO2? E le condizioni dei lavoratori? Non sempre tutti gli aspetti vengono presi in considerazione e i brand finiscono per definirsi sostenibili senza esserlo pienamente.
Una cosa è certa i brand di moda non possono da un momento all’altro diventare totalmente sostenibili. Il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori richiede un impegno costante ed attività di lungo termine.
Lo sforzo ambientale di brand come H&M è riconosciuto, ma è realmente in grado di rendere sostenibile un modello di business come il fast fashion? Lanciare collezioni definite “conscious” mostra il loro sincero impegno o è una strategia di marketing?
È importante poi sottolineare l’impossibilità di definire la moda come pienamente sostenibile. L’obsolescenza è parte integrante dell’industria.
Come afferma sul Financial Times Maxine Bédat del New Standard Institute: “L’abbigliamento avrà sempre un impatto“. “Abbiamo bisogno di brand che ci parlino di cosa stanno facendo per ridurre il loro impatto e di essere onesti e trasparenti su cosa hanno raggiunto e cosa devono ancora raggiungere”, fondamentalmente, “nessuna azienda può essere perfetta ma non possiamo chiamare qualcosa come sostenibile se non lo è”.