Nella prima metà di gennaio due eventi italiani hanno aperto la strada al tradizionale periodo di presentazione delle nuove collezioni, convogliate nella settimana della moda maschile, femminile ed Haute Couture.
Pitti Uomo e White Show Milano rappresentano tutt’oggi due dei principali palcoscenici dell’innovazione in Italia e all’estero.
Quello che può non essere chiaro, al netto di presentazioni altisonanti, è che Pitti Uomo è prima di tutto di un’occasione per vendere e promuoversi. Aderiscono infatti i principali brand di abbigliamento e fornitori di tessuti – circa 1200 espositori – al fine di creare relazioni commerciali e presentare al meglio le novità.
I principali invitati sono in effetti i buyers: professionisti che hanno il compito di decidere che cosa sarà nei negozi nelle prossime stagioni. Per quanto scontata possa essere la premessa, è necessaria per capire a quale mondo ci si affaccia: il mercato.
Pertanto al salone è possibile trovare sia un padiglione esclusivamente dedicato a brand e negozi made in China, sia padiglioni tematici dedicati alle proposte di designer emergenti da tutto il mondo, come quello denominato “Touch!”, ed altri focalizzati su sostenibilità ambientale come, ad esempio “LAND FLAG: from Waste to new materials”, un percorso-installazione dedicato alla provenienza dei materiali ed alle risorse necessarie per poterli usare nell’industria fashion. All’interno di quest’ultimo ambiente si è tenuto ogni giorno della fiera un dibattito su temi ambientali in relazione al futuro della moda.
I protagonisti indiscussi di Pitti rimangono i brand, i quali sono tenuti a realizzare l’allestimento a propria discrezione: nella maggior parte dei casi lo spazio espositivo diventa uno showroom (ricordiamoci: l’obiettivo è vendere), ma non è sempre detto.
All’interno del padiglione Touch!, ad esempio, il marchio emergente IOWEYOU ha esposto una selezione ristretta di capi, tutti coesi nell’utilizzo di tessuti naturali, tra cui la seta lavorata con la tecnica “mud silk” tradizionale di Guangong in Cina – paradossale l’accostamento se si pensa alle produzioni cinesi che di artigianale hanno ormai ben poco. Ogni capo è realizzato a mano sempre dallo stesso artigiano che ha perfezionato il modello.
Un altro esempio interessante di questo stesso padiglione è THE TWEED PROJECT, marchio irlandese che si distingue per l’utilizzo di tessuti realizzati con telai manuali (principalmente tweed di lana e tela di lino). In questo progetto la logica di base è utilizzare tutto quello che si produce, scartando il meno possibile. In questa prospettiva sono nati, oltre a capi d’abbigliamento – capispalla e camicie – anche oggetti per la casa, come ad esempio un cuscino “peloso” realizzato con le cimose sfrangiate dei rotoli di tessuto.
Visitando i diversi padiglioni è stato facile imbattersi in slogan e piccoli allestimenti riguardanti i cambiamenti climatici ed il massiccio utilizzo di plastica nei materiali del settore fashion.
Se da un lato questo può rassicurare sul fatto che il mondo della moda (anche quella commerciale) è pronto ad affrontare tali criticità, dall’altra parte era preoccupante la carenza di approfondimento e prospettiva da parte dei brand.
Il rischio è quello di considerare la sostenibilità un “plus” del proprio marchio, un canale aggiuntivo che serve a convincere ulteriormente gli acquirenti.
L’interesse a tematiche ambientali può quindi sembrare posticcio, soprattutto se riguarda scelte tutto sommato marginali: cotone organico al posto di quello tradizionale, poliestere riciclato al posto del poliestere “vergine”.
Alla ricerca di nuove linee di pensiero e nuovi modi d’uso moda hanno risposto sicuramente alcuni brandi di maglieria, primo tra tutti Rifò LAB, che fin dalla nascita ha scelto di produrre capi ricavati da filati riciclati: si sfilaccia il capo vecchio, si ottengono di nuovo le fibre, si rifà il filo e con quello si ottiene un maglione. Rifò invita i propri consumatori a donare capi smessi e a far riparare presso la propria factory i capi ancora buoni ma difettati.
Un altro brand di maglieria che si è occupato di up-cycling con una linea in cashmere riciclato è Daniele Fiesoli, toscano doc che ha festeggiato 20 anni di tradizione esponendo i suoi capi “absolutely made in Italy”: citazione dell’etichetta, in cui viene illustrata la provenienza del filato, il tipo di lavorazione e l’ubicazione del maglificio nel territorio italiano. In questi due esempi è chiaro il desiderio di andare oltre all’aspetto pubblicitario che vede la sostenibilità come un nuovo gancio per vendere numeri più alti.
Il trend sulla sostenibilità al Pitti coinvolge in maggior parte alcune precise merceologie: spopolano i capispalla tecnici e l’outerwear in generale, gli accessori (zaini principalmente) e i capi in cotone.
Una nota positiva va ad Herno, produttore di cappotti e piumini, per l’impegno nello spiegare e far toccare con mano le scelte di prodotto: i capi sono progettati ed industrializzati in maniera moderna, studiando il minor spreco possibile di risorse non solo tessili ma anche ambientali, attraverso l’utilizzo di strutture rese energeticamente indipendenti. Herno impiega attualmente, per molte delle linee commerciali, metallerie riciclate, oltre a materiali che i fornitori stessi propongono in quanto sostenibili e di alta qualità (ad esempio la lana rigenerata).
La moda del Pitti è apparentemente pronta a favorire nuovi materiali più rispettosi per l’ambiente; la vera domanda ora è se questo sarà sufficiente ad influenzare anche le abitudini di consumo o se si tratterà semplicemente di un pretesto per ampliare la vendita.
Di matrice differente è stato l’evento “WSM Fashion Reboot”, parte del più ampio White Show ospitato nella sede del BASE Milano, in collaborazione con Camera Nazionale della Moda e CBI (Camera Buyer Italia).
Sebbene gli intenti siano simili a quelli di Pitti Uomo – networking e creazione di nuove prospettive di vendita – WSM Fashion Reboot si è presentato come una finestra su molteplici aspetti legati alla sostenibilità, non solo commerciali ma anche culturali. Testimone ne è l’ingresso del padiglione, che introduce il tema della progettazione sostenibile attraverso un’esposizione di Salvatore Ferragamo, storico marchio italiano che ha fatto del riuso una tecnica d’alta moda.
L’evento WSM Fashion Reboot riguarda principalmente i brand e le aziende che hanno investito energie e risorse per innovare il proprio settore: nei materiali, ma anche nei modi di acquistare ed usare un prodotto. Non a caso sono presenti startup come Dress You Can (DYC), che si occupa di noleggio abiti di lusso e di designer. Gli espositori presenti non sono solo marchi alla ricerca di occasioni di vendita, ma anche fornitori di servizi per le imprese; ad esempio CIKIS, studio di consulenza che permette ai brand di calcolare, attraverso un software indipendente, l’impatto ambientale del proprio operato e tracciare nuove strategie.
Tra i brand con cui CIKIS ha collaborato e Dress the Change ha avuto modo di conoscere personalmente, si annovera ZEROBARRACENTO, il cui lavoro è incentrato sul ridurre al minimo lo scarto nel taglio e confezione dei capi: le cimose diventano elemento decorativo e il fit degli abiti si adatta morbidamente a diverse forme, sia femminili che maschili.
Di positivo, oltre a tutto questo, c’è la tendenza di tanti giovani designer a collegare il lato produttivo ed industriale della moda con tematiche sociali e di inclusione, che coinvolgono tipicamente artigiani e manifatturieri.
I ragazzi di Artknit, brand di maglieria, raccontano che nel loro caso l’idea di creare un brand ha richiesto fin dall’inizio la vicinanza geografica ai fornitori di filati, in modo che non ci fossero intermediari ed ostacoli tra la materia prima, il design e la produzione.
Un ulteriore segno dell’interesse di White Milano per i nuovi modi di pensare e progettare l’abbigliamento sono stati i numerosi workshop presenti durante le due giornate di evento, con ospiti quali Abitario (maglieria), Corrina Goutos (gioielli), Larissa Von Planta (sartoria upcycling) e Patrick McDowell (accessori).