Il settore tessile in Myanmar, in bilico fra tradizione e delocalizzazione

Il Myanmar, fino a pochi anni fa paese completamente isolato a livello politico ed economico, a causa di un regime militare totalitario durissimo e repressivo verso qualsiasi tentativo di opposizione (basti menzionare Aun San Suu Kyi, politica e premio Nobel per la pace costretta per anni all’isolamento e agli arresti domiciliari) sta conoscendo da qualche anno una nuova fase di graduale apertura.

Tale inversione di rotta sta interessando diversi fronti, stimolando nuove possibilità di cooperazione ed accordi internazionali, anche e soprattutto sul piano economico.

La revoca delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale prima, ed una recente legge sugli Investimenti poi, sono stati degli acceleratori decisivi in grado di attrarre sostanziali investimenti diretti esteri.

Ma forse l’effetto più immediato e tangibile di questo cambio è stato il ritorno del Myanmar tra le rotte del turismo internazionale, soprattutto del tipo “zaino in spalla”, alla ricerca di un paese crocevia dell’Asia non ancora contaminato ed influenzato dall’occidente: intatto, e per questo profondamente autentico.

Tra questi viaggiatori qualche mese fa sono stata avvistata anch’io.

Ho trascorso circa due settimane girando in lungo e in largo sui pullman più o meno sgangherati ma incredibilmente efficienti delle compagnie di trasporti del paese, ed una delle tappe irrinunciabili del viaggio è stato il Lago Inle, abitato dall’etnia Intha e ormai famoso in tutto il mondo per il curioso modo dei pescatori di remare con una gamba stando in piedi sulla barca.

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Ma oltre che di pescatori, obiettivi preferiti dei flash dei turisti sulle barche, il lago è popolato di veri e propri villaggi galleggianti, all’interno dei quali si trovano diversi laboratori di tessitura completamente artigianale, che segue un antico rituale di filatura che parte dalle fibre vegetali del loto, pianta acquatica che cresce spontanea e in abbondanza in tutta la zona.

I fiori, raccolti e lavorati con abile destrezza manuale nel corso della stessa giornata al fine di preservarne la freschezza, si trasformano in un filato che, avvolto in bobine, viene inserito nei telai in legno di teak utilizzati da giovani tessitori, uomini e donne, per la produzione di sciarpe, gonne, mantelle, originariamente destinati alle famiglie abbienti della zona, ma che oggi finiscono per giacere stipati nei “shops” galleggianti, divenuti tappa obbligata di ogni giro turistico organizzato sul lago.

Il lavoro per la produzione di ogni singola sciarpa è davvero enorme, preciso, faticoso e senza dubbio affascinante alla vista, ed il costo dei prodotti finiti è abbastanza elevato rispetto agli standard locali, in alcuni casi anche superiore alla media degli standard internazionali.

Osservando da vicino tutto il procedimento, ascoltando il racconto delle “responsabili” di ciascuna fase delle produzione (tutte a proprio agio con la l’inglese, in assoluta controtendenza con la maggioranza della popolazione), scaturiscono almeno due riflessioni.

In primo luogo, viene da chiedersi se il turismo, anche qui sempre più “di massa”, che costituisce senza dubbio una risorsa economica di vitale importanza per il  paese, porti con se’ il rischio di snaturare le tradizioni locali, stravolgendo ritmi, modalità, costi e finalità di una produzione non più orientata solo verso la popolazione locale. Ci sono poi conseguenze potenzialmente dannose anche per l’ecosistema (c’è allarme sullo sfruttamento delle risorse del lago) e per le relazioni tra culture (a differenza di altri siti visitati, sul lago Inle abbiamo riscontrato episodi di percezione negativa dei turisti da parte dei locali).

Il secondo aspetto riguarda invece la contrapposizione tra la produzione tessile artigianale locale per il commercio locale, forse destinata ad assumere le sembianze di un’attrazione turistica, e la sempre più massiccia presenza sul territorio di grandi produttori internazionali del tessile, come GAP (il primo a entrare nel paese, attratto dal bassissimo salario minimo birmano), Primark, Marks & Spencer, H&M.

Tale presenza crescente porta ovviamente con se’  il pericolo dell’indebolimento dell’economia locale, e quindi del tessuto sociale connesso, in favore di un’economia destinata quasi esclusivamente al mercato estero. Ma, forse ancora di più, solleva l’annosa questione del rispetto dei diritti umani da parte delle aziende nei contesti deboli come quello in questione: circa un anno fa, proprio H&M fu al centro di polemiche in seguito alla notizia, diffusa dal Guardian, che in Myanmar impiegasse lavoratori di 14 anni per oltre 12 ore consecutive, sei giorni la settimana.

In sostanza, il Myanmar si presenta oggi come un banco di prova per tutti gli stakeholders dell’economia e della politica internazionale oltre che locale, nel quale provare a sviluppare un sistema di business responsabile e sostenibile, che non  si limiti a sfruttare i vantaggi di una forza lavoro a basso costo e alla debolezza dell’aspetto normativo, ma che sappia preservare, o meglio ancora valorizzare, l’unicità e l’autenticità della produzione tessile locale.

 

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