Ad un anno dal primo lockdown, momento storico eccezionale e disfunzionale per l’Italia come per il resto del mondo, è naturale domandarsi: “Cosa è cambiato da quel momento?”.
Lo sguardo di Dress The Change va al mondo della moda, nella sua interezza. Abbiamo posto questa domanda sui nostri canali social, e il risultato ha portato diverse considerazioni. Alcuni sostengono di comprare meno di prima, altri che è aumentato il greenwashing da parte di molti brand. C’è chi ha notato dei cambiamenti nelle modalità d’acquisto, al di fuori dello storico binarismo retail fisico / shopping online. Ma procediamo con ordine.
Ecco quattro diverse sfaccettature di quanto è successo nel 2020
La moda come industria e mercato
È sempre bene tenere a mente che il fashion system è, al di là di ogni rappresentazione, un settore produttivo. Come riporta, su Io Donna, Federica Salto “il Coronavirus ha mandato all’aria molte dinamiche e ne ha accelerate altre, trasformando in maniera radicale l’intero settore. Secondo i dati di Altagamma, in Italia l’anno si chiude con un calo previsto del -20/-22%, minore rispetto alle previsioni di metà anno ma maggiore rispetto a quella relativa alla crisi economica del 2008 (-9%).”.
La crisi si è avvertita in prima battuta negli stabilimenti industriali, impossibilitati a portare a termine le produzioni di abbigliamento, e in secondo luogo – non meno influente – sul piano della vendita dal vivo. Tuttavia, mentre le manifatture hanno potuto e saputo riconvertirsi, confezionando camici e mascherine, il settore retail è rimasto fermo ed in forte difficoltà per quasi tutto l’anno.
Il discorso vendita si è spostato in larga scala sull’online: per molti mesi hanno prolificato le narrazioni relative al “vestirsi a casa”, mirate a sostenere la vendita dell’abbigliamento athleisure (tute, felpe, magliette). In alcuni casi, venendo a mancare molte dinamiche consolidate di comunicazione, l’influenza del consumatore è quasi collaterale: un esempio eclatante è stata l’esplosione di richieste del soprabito Barbour, visto e rivisto in The Crown, show popolarissimo e sulla cresta dell’onda nei mesi della pandemia.
Questo passaggio totale e rapido allo shopping online ha avuto delle ripercussioni sulla sostenibilità del settore moda? Difficile dirlo, soprattutto nei primi mesi della pandemia, in cui i cambiamenti non potevano essere ancora messi a fuoco.
Nuovi modi di comprare, nuovi modi di inventare
Se da un lato il non poter recarsi fisicamente nei negozi ha causato profondi danni all’economia, dall’altro ha portato uno stimolo necessario a nuove prese di coscienza. Il primo lockdown ha messo in luce molti meccanismi fino a quel momento socialmente accettati, o nel migliore dei casi trascurati: lo shopping compulsivo come fonte di distrazione e compensazione, ad esempio, e il conseguente possesso di un numero di outfit assurdamente maggiore alle occasioni d’uso.
Rispetto a tali dinamiche, il 2020 ha trovato risposte in più direzioni: da un lato, l’affermarsi progressivo di nuove forme d’acquisto, come ad esempio il pre-order e i drop frazionati, che mirano a disincentivare l’acquisto dettato puramente dall’impulso. Questa via conduce naturalmente ad una suddivisione stagionale meno serrata, più dilazionata nel tempo e più attenta, proprio come suggeriva Giorgio Armani nella sua letta a WWD ad aprile: “Trovo assurdo che durante il pieno inverno, in boutique, ci siano i vestiti di lino e durante estate i cappotti di alpaca, questo per il semplice motivo che il desiderio d’acquisto debba essere soddisfatto nell’immediato”. Armani si riferiva indistintamente a gruppi di grande distribuzione e lusso, tuttavia sappiamo che tendenzialmente è l’ultima categoria – assieme a cosiddetti marchi “di nicchia” – ad aver accolto positivamente questo proposito.
Un’altra importante risposta, palese ad un anno di distanza, è l’incredibile crescita del mondo del vintage e second hand: secondo il report annuale di Lyst, la celebre piattaforma globale di ricerca e acquisto fashion, la richiesta di abbigliamento second hand tramite parole chiave ha visto un incremento del 104%. Un recente articolo sul The Guardian ha inoltre evidenziato la moltiplicazione di app dedicate alla rivendita di vestiti (Vestiaire Collective ha registrato il 101% di capi in più postati sulla piattaforma), ma non solo: nascono continuamente progetti che mirano alla riparazione e al riciclo, come ad esempio Sojo, il “Deliveroo delle riparazioni sartoriali”. Degno di nota anche l’arrivo di Vinted in Italia (spopolava già in Francia, Regno Unito e Germania), che è andato a rimpolpare il pubblico di amanti del second hand, un tempo abituati ad avere solo Depop.
Un tema ampiamente in crescita è sicuramente quello del riutilizzo e dello smaltimento, una volta concluso il celebre decluttering – altra abitudine che si è consolidata nei mesi di permanenza forzata a casa. Un grande impulso, grazie ai social ed alla comunicazione di realtà inizialmente di nicchia, è stato dato all’upcycling; un esempio ormai noto al sistema moda mainstream è Marine Serre, stilista francese vincitrice del LMVH Prize 2017, il cui lavoro di upcycling è in grado di trasformare vecchie sciarpe, centrini e salviette in abiti e capispalla incredibili.
Anche Gucci si è dimostrata molto aperta a questa nuova sensibilità, coinvolgendo il brand di Stoccolma “Rave Review” nella produzione di GucciFest – ovvero un nuovo formato audiovisivo, a puntate, a cui Alessandro Michele ha affidato la presentazione della nuova collezione, in linea con i cambiamenti dell’ultimo anno in fatto di sfilate e fashion show.
Si può dire quindi che l’impulso non sia stato percepito solo dai consumatori, soggetto considerato tradizionalmente passivo nelle dinamiche di consumo, ma anche e soprattutto nell’ambito creativo. Se questo sia stato dettato esclusivamente da necessità di vendita (per tenersi a galla), questo è da valutare caso per caso; sta di fatto che un utilizzo più saggio delle risorse, dei materiali e di quanto è stato finora prodotto inutilmente è diventato un approccio comune alla stragrande maggioranza dei brand.
La moda delle sfilate
Da questo punto di vista i cambiamenti sono stati veramente numerosi e variegati. Sembra passato un secolo dalla sfilata a porte chiuse di Armani a febbraio, prima avvisaglia di una situazione insostenibile sul piano degli eventi delle Fashion Week (Moncler e Michael Kors, ad esempio, annullarono direttamente gli appuntamenti).
Molto si è discusso sulle modalità con cui la settimana della moda – sia per la presentazione delle collezioni sia per l’Haute Couture – avrebbe continuato il suo corso. Anche nel settore eventi la crisi ha colpito duramente tanti professionisti il cui lavoro dipendeva dall’andamento delle sfilate: fotografi e videomaker, fonici, dj, truccatori, stylist e giornalisti. Già a gennaio 2020, tuttavia, Vogue Italia aveva scelto di uscire con un numero privo di photoshoot, per porre l’attenzione sulla abnorme quantità di risorse necessarie a produrre contenuti per il mondo della moda.
Dalla situazione pandemica è uscito, anche in questo caso, un disperato desiderio di nuovi impulsi, di continuare a vedere la novità come qualcosa di positivo e stimolante; questo ha portato i singoli brand ad interrogarsi su come agire, come presentarsi al pubblico e che messaggio comunicare.
Non è un caso se Miuccia Prada e Raf Simons (nuovo co-designer) hanno proposto e supportato di buon grado un’intervista con domande dal pubblico, a seguito della loro prima sfilata insieme. Lo stesso si applica per Valentino, sotto la guida di Pier Paolo Piccioli: dapprima lo sviluppo di una capsule collection visibile sul videogioco Animal Crossing, e in seguito la campagna “Valentino Empathy” (basata su fotografie autoprodotte da modelle e modelli, in modo da poter donare il budget degli shooting all’Ospedale Spallanzani di Roma) sono solo alcuni dei segni di una nuova sensibilità da parte dei brand. Sensibilità che si manifesta tendenzialmente in canali già noti – pubblicazioni e social – ma non solo. L’aspetto tecnologico di questa svolta ha acquisito un peso non indifferente: tra sfilate digitali, avatar e collezioni presentate sotto forma di videogiochi, sembra che la moda si sia proiettata nell’iperspazio. Come ogni cambiamento, anche quello portato dal 2020 ha dei tempi tecnici per essere assimilato, fruito ed apprezzato da tutti. Tanti marchi hanno scelto di continuare con sfilate più dimesse, a porte chiuse o semplicemente videoregistrate. La prospettiva di presentare collezioni nuove con un minor numero di indumenti sample, sostituiti dai corrispettivi digitali, rimane comunque un ottimo proposito e un campo di sperimentazione.
La moda a basso costo – non ambientale né sociale
Tutt’altro che trascurabile, tocchiamo infine il tasto dolente: cosa è cambiato per chi produce fast fashion e abbigliamento di grande distribuzione. Lo sguardo alle realtà di lusso e italiane non serve a distoglierci dal prendere coscienza di cosa è successo nei Paesi in cui già prima della pandemia erano perpetrate diverse forme di sfruttamento.
Già a partire da marzo 2020, molte compagnie di abbigliamento low cost avevano deciso di interrompere i pagamenti per la merce in fase di produzione: merce che non sarebbe mai finita nei negozi a causa del lockdown. Anche in questo caso, la situazione problematica ha portato i nodi al pettine, poiché è pratica comune per le compagnie di GDO pagare gli operai tessili da 1 a 3 mesi dopo la consegna dei prodotti. Il valore del lavoro non retribuito è stato stimato intorno ai 40 miliardi di dollari.
Grazie ad associazioni come Clean Clothes Campaign, Re/make altre ONG presenti sul territorio – in Asia, principalmente Bangladesh – è stato possibile avviare la campagna #PayUp, diventata virale in breve tempo. Questo ha permesso di recuperare circa 15 milioni di dollari . Quel che è peggio è che anche ammettendo il debito di queste compagnie (la lista completa si può trovare qui) , la situazione asiatica è più critica che mai. I brand di fast fashion sono tornati a dare lavoro alle factories con budget ancora più bassi e prezzi ancor più concorrenziali del passato, fornendo nuovo impulso al loop di miseria e dipendenza. PayUp intende rimanere come progetto di attivismo con l’obiettivo di valutare l’operato dei brand e rendere partecipi i consumatori, affinché sia chiaro che con i nostri acquisti siamo potenziali complici di un’industria fondata sull’abuso e sulla speculazione.
Nonostante questo genere di iniziative, il 2020 è testimone di tanti altri scenari, primo tra tutti la correlazione tra le manifatture di fast fashion e il genocidio culturale degli Uiguri, un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina. Nei cosiddetti campi di “ricondizionamento”, i cittadini cinesi Uiguri lavorano forzatamente per numerosi marchi occidentali, in condizioni disumane e in totale prigionia. Come riportano Valori.it e Campagna Abiti Puliti, “rimuovere in modo definitivo i gravissimi abusi è difficile. É necessario che i marchi che si approvvigionano di materie prime provenienti dalla regione dello XUAR cessino i loro rapporti commerciali con quei fornitori. Questo fronte si salda con la richiesta al governo, rafforzata da una petizione, che i fondi pubblici utilizzati per la ripressa dalla crisi per coronavirus vadano a società rispettose delle persone e senza una sede in paradisi fiscali.”