Come i Millenials potranno salvare il mondo, della moda.

Si è recentemente conclusa, lo scorso 30 aprile, la settimana dedicata alla Fashion Revolution e, per una volta anche sui media italiani, si sono accesi i riflettori su una questione di alto impatto sociale: il mondo della moda.

Moda e crisi economica sono legati a doppio filo nella società dell’apparenza. Grazie alla moda a basso prezzo (Fast Fashion) possiamo apparire ciò che non siamo, possiamo possedere status che appartengono a persone che vorremmo essere, possiamo identificarci in realtà diverse dalla nostra.

Il 3 maggio Greenpeace ha pubblicato un sondaggio condotto da SWG sulle abitudini dei giovani italiani nell’acquisto di capi di abbigliamento ed è emerso che la maggior parte degli intervistati (un campione di 1.000 italiani, uomini e donne tra i 20 e 45 anni) oltre a possedere più abiti di quanti ne abbia bisogno e di quanti vengano indossati effettivamente, ricorre allo shopping solo per compensare insicurezze personali, delusioni, noia.

Un capo di abbigliamento ha una vita sempre più breve, proprio perché considerato un bene usa e getta. E questo è quello che le industrie della moda vogliono che facciano i loro consumatori. Si è passati, oramai, dalla produzione delle storiche 4 stagioni alle attuali 52 stagioni che stimolano il consumatore a comprare sempre di più con un costo umano e ambientale altissimo.

Può sembrare peculiare descrivere la moda come una questione sociale, ma i dati relativi all’impatto ambientale ed umano di questa industria sono più che idonei a qualificarla in tale modo. Recita una delle campagne di impatto del movimento internazionale Fashion Revolution “Fast Fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying”. In pratica, se un capo di abbigliamento costa veramente poco, un perché ci sarà: l’industria della moda, infatti, oltre a essere la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera, ha dei costi umani insostenibili.

La tragedia di Rana Plaza, in cui il 24 aprile del 2013 crollò a Dacca una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali, è stato l’evento a seguito del quale si è iniziato a parlare delle conseguenze umane del frenetico mercato della moda. Nel crollo dell’edificio morirono 1.129 persone e ne rimasero ferite più di 2.500.

I dati dell’industria tessile al momento sono allarmanti. Dalle indagini condotte dal movimento internazionale Fashion Revolution emerge come in Guandong, in Cina, le giovani donne facciano fino a 150 ore mensili di straordinari, il 60% di loro non abbia un contratto ed il 90% non abbia accesso alla previdenza sociale; in Bangladesh i lavoratori che realizzano indumenti guadagnano 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari). Ancora, sempre Fashion Revolution ha stimato nel corso di un’indagine condotta su 91 marchi di abiti che solo il 12% di questi abbia intrapreso azioni dirette a garantire un salario minimo legale per i propri lavoratori. ll Bangladesh Child Right Forum stima che siano 7,4 milioni i bambini bangladesi costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, divenendo vittime di abusi e torture nel 17 % dei casi. Come è possibile cambiare questa tendenza che sembra irreversibile?

Sicuramente il potere principale lo hanno i consumatori di domani, lo abbiamo noi Millennials.

La società di consulenza PWC ha presentato nel giugno del 2016 un’indagine riguardante il punto di vista dei Millennials in merito alla sostenibilità nel campo della moda.

I risultati sono molto interessanti, e simili, in una scala notevolmente più ridotta, a quelli che ho raccolto la scorsa settimana durante un incontro con una trentina di ventenni a cui ero andata a parlare di moda etica per fare sensibilizzazione sul tema. Se informati sull’universo che risiede dietro all’industria del tessile i giovani (l’81% degli intervistati) si dimostrano disposti a pagare i propri abiti un prezzo maggiore purché vengano rispettate le minime condizioni di lavoro degli operai e rispettate le normative sulla preservazione dell’ambiente. Durante l’incontro che ho avuto con il più limitato numero di Millennials, una volta mostrato loro l’impatto economico prodotto sull’indumento a fronte di un salario minimo garantito ai lavoratori del tessile (dati di Fashion Revolution dimostrano che l’aumento sarebbe di 1.57 euro su un capo che ne costa 29) tutti si sono dichiarati disposti a sostenere la spesa maggiore.

Come è emerso dalla ricerca di PWC, l’80% dei Millennials (la ricerca è stata condotta attraverso 3160 interviste) ritiene che le aziende debbano puntare maggiormente sulla sostenibilità.

È emerso come sia alta la richiesta di ricevere maggiori informazioni sull’origine e la lavorazione dei propri abiti. La stessa ricerca afferma che il 41% dei giovani intervistati abbia dichiarato che la sostenibilità possa aumentare in modo rilevante la loro propensione alla fidelizzazione con il brand.

Tutti questi dati sono idonei a dimostrare come i consumatori di domani possano influire notevolmente sulle politiche sociali ed economiche del mercato dell’industria del tessile. Molti di loro, però, non sanno di poter incidere in modo così rilevante sul mercato. È infatti emerso che, una volta eliminati i prodotti non sostenibili dai propri armadi e iniziato ad effettuare acquisti sostenibili, una percentuale bassissima dei giovani condivide le proprie scelte on line.

Questo è un dato su cui bisognerebbe lavorare. Come spiega, infatti, il professore di economia politica Leonardo Becchetti, autore del libro “Il mercato siamo noi”, “La forza decisiva per costruire dal basso un benessere equo e sostenibile sarà il “voto col portafoglio”. Ovvero la sempre maggiore consapevolezza dei cittadini che le loro scelte di consumo e risparmio sono la principale urna elettorale che hanno a disposizione”. Solo condividendo le proprie scelte di consumo responsabile, solo facendo pressione sui brand affinché adeguino le loro politiche di mercato a logiche ambientalmente e umanamente più sostenibili, solo premiando i produttori che si impegnano a rispettare i diritti umani e l’ecosistema, si potrà incidere sulle scelte di mercato. La condivisione, l’informazione e la volontà sono gli elementi fondamentali per potere portare avanti questa rivoluzione.

I tempi stanno cambiando e non si può più sostenere come la moda etica sia una “questione di classe” in quanto non accessibile economicamente a tutti. È stato dimostrato come l’impatto sul costo finale del prodotto abbia una rilevanza limitata sulle spese dei consumatori. Le grandi industrie della moda hanno falsato i prezzi dei capi di abbigliamento intossicando il mercato ed abituando i consumatori ad avere molto a poco prezzo. Scriveva Serena Dandini in un suo recente editoriale, riguardo al rapporto di Oxfam sulla povertà, che un’economia umana ha bisogno di altri numeri. I Millennials hanno un enorme potere nelle loro tasche. Tutto sta nel sapere di averlo e nel volerlo esercitare.

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