Dalla coltivazione della pianta di cotone al lavaggio dei nostri vestititi, l’acqua riveste da sempre un ruolo fondamentale nell’industria della moda.
Sappiamo benissimo tutti che per realizzare una sola t-shirt vengono utilizzati 2700 litri di acqua o che l’acqua necessaria a produrre un paio di jeans, invece, è equivalente al fabbisogno di acqua per 100 giorni di vita di una persona che vive in occidente e di un anno di una persona che vive nel sud Sahara.
Sono numeri che leggiamo oramai in continuazione, ma ci siamo mai soffermati a cercare di capire in che cosa consista concretamente il rapporto fra il consumo di acqua e l’industria della moda?
Quest’ immagine di una nave arrugginita in pieno deserto non è un’opera d’arte contemporanea, né un’installazione di qualche associazione ambientalista, è quello che resta di un lago: il lago di Aral.
Questo era un lago salato di origine oceanica posto al confine tra l’Uzbekistan e il Kazakistan. Dal 1960 ad oggi la sua superfcie si è ridotta del 75%, e dei 68.000 km quadrati originali oggi ne restano poco più del 10%. Il restante 90% è sabbia, tutto il resto dell’acqua si è prosciugato.
Perché non c’è più traccia del lago di Aral? E cosa c’entra la sua storia con la moda?
La diminuzione delle acque del lago è iniziata durante la Guerra Fredda. Il regime sovietico formulò, infatti, un programma per deviare due fiumi del lago per irrigare dei nuovi campi intensivi di cotone in Uzbekistan. Successivamente, a causa dell’evaporazione naturale e di una significativa riduzione del flusso d’acqua, il lago ha inevitabilmente iniziato ad asciugarsi.
Il cotone è diventato il fulcro dell’economia dell’Uzbekistan, sesto produttore al mondo del settore, benché sia solo il 56⁰ per superficie. Ogni anno viene prodotto un milione di tonnellate di cotone: 50 chili per abitante. E per esportazione l’Uzbekistan diventa secondo solo agli Stati Uniti.
Uno sviluppo economico ed industriale con numerosi effetti collaterali negativi. Il più evidente è proprio quello del Lago d’Aral, che era il secondo specchio d’acqua dell’Asia Centrale (dopo il Caspio).
Per far posto alle piantagioni intensive di cotone sono stati utilizzati innumerevoli diserbanti, che hanno inquinato il terreno circostante e provocato anche l’inquinamento dell’acqua salata. Poiché il lago non ha emissari, le sostanze tossiche si sono accumulate irreversibilmente sul suo fondo del lago. Una volta evaporata l’acqua, sul terreno è rimasta solo sabbia mista a polvere inquinante.
Le attività economiche basate sulla pesca sono definitivamente scomparse, con ovvie conseguenze sociali per tutte le famiglie che fondavano la loro sopravvivenza su queste attività. Come tutte le altre attività che ricorrevano allo sfruttamento delle risorse idriche della lago.
Le conseguenze del prosciugamento del lago di Aral hanno anche causato cambiamenti climatici nella regione. Se prima la presenza di acqua mitigava il clima caldo nella zona, adesso la totale mancanza di acqua ha fatto sì che il tasso di evaporazione sia sempre più veloce, producendo rilevanti escursioni termiche, e l’area sempre più arida
Un altro effetto collaterale della produzione di cotone in Uzbekistan è il lavoro minorile. In autunno, secondo molte denunce di varie associazioni umanitarie, migliaia di ragazzi dai 7 anni lasciano le scuole per lavorare al raccolto nelle piantagioni, a salari minimi (0,10 dollari al chilo di cotone raccolto).
Un altro esempio di quanto i danni ambientali hanno influito sulla vita della popolazione locale è rappresentato dalla vicina cittadina di Moynaq, un tempo uno dei centri costieri più attivi. Oggi le rive del lago di sono allontanate di circa 50 km dalla città e gli abitanti hanno perso, con il lago, non solo la fonte della loro sussistenza economica, ma hanno acquisito anche una forte eredità in termini di malattie: a causa dell’inquinamento dell’aria, malattie come tubercolosi, cancro alla gola ed epatiti colpiscono la popolazione dell’area almeno tre volte in più della media del Paese.
La storia del lago di Aral racchiude in sé tutte le principali conseguenze negative dell’industria della moda: consumo di acqua; consumo del suolo; lavoro minorile; conseguenze sociali; cambiamenti climatici.
Un racconto emblematico e concreto di come la sovrapproduzione di capi di abbigliamento ed i nostri acquisti sfrenati stiano distruggendo il nostro pianeta.
Fonti:
www.cottoncampaign.org
www.repubblica.it
https://www.youtube.com/watch?v=iRlw59VzWc8&t=20s