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Conoscere l'etichetta di provenienza? – Dress the change

Conoscere l’etichetta di provenienza

L’etichetta di provenienza di un prodotto può influire positivamente o negativamente nella scelta di capi d’abbigliamento. Questo, al netto di pregiudizi, avviene nella misura in cui si conoscono le consuetudini e le politiche di lavoro e/o ambientali di un determinato Paese.

Sono stati redatti nel corso degli anni numerosi provvedimenti e leggi per regolamentare le dinamiche di import/export e più in generale la dicitura “Made in”.

Provenienza

Per quanto riguarda la parte di etichettatura che riguarda la provenienza, sono state redatti nel corso degli anni numerosi provvedimenti e leggi per regolamentare le dinamiche di import/export e più in generale la dicitura “Made in”.
Allo stato attuale, nella disciplina della comunità europea
non esiste un espresso obbligo di etichettatura di origine del prodotto. La Corte di Giustizia CE ha infatti dimostrato la sua contrarietà a rendere obbligatoria l’indicazione “Made in” da parte dei Paesi membri: secondo questa posizione, imporre questa dicitura fornirebbe ai consumatori la possibilità di sviluppare pregiudizi nei confronti delle merci straniere ed indebolirebbe il mercato unico europeo.
Tuttavia
sul territorio nazionale è valido il Decreto Legislativo 206/2005 (“Codice del consumo”) relativo in generale a tutti i manufatti, secondo cui questa informazione è obbligatoria: le imprese devono dichiarare il Paese di provenienza del prodotto e laddove necessario chiarire eventuali parti coinvolte nella distribuzione/commercializzazione.


Per l’attribuzione dell’origine, si applicano le regole previste dalla normativa europea doganale, la quale stabilisce che il nome del Paese nella dicitura “Made in” deve corrispondere a quello dove è avvenuta la lavorazione sostanziale atta a dare le caratteristiche di prodotto nuovo. Per esempio: nel caso delle calzature, si dichiara la provenienza relativamente a dove si unisce la tomaia (parte morbida esterna) alla suola, realizzando così il prodotto finito. Nel caso del Made in Italy, tanto ricercato dai marchi di lusso, questa regolamentazione apre una serie di problematiche legate all’importazione di tomaie e suole non fabbricate in Italia, e pertanto non appartenenti ad una filiera controllata e garante di qualità come quella italiana. Lo stesso vale per tante altre merceologie: per ciascuna, la legge ha stabilito un limite di avanzamento del prodotto (ad esempio solo il “guscio” esterno, o solo le fodere) entro il quale è possibile esportare i semilavorati e farli etichettare dal Paese che chiude il capo.

Per strutturare questa norma, sono state istituite di ciascuna merceologia delle fasi di lavorazione standard: affinché il capo possa riportare la dicitura “Made in”, almeno due di queste lavorazioni devono essere compiute nel Paese indicato:

  • settore tessile: filatura, tessitura, confezione e nobilitazione (finiture decorative, bottoni, etc.)
  • settore pelletteria: concia, taglio, preparazione, assemblaggio e rifinizione
  • settore calzaturiero: concia, taglio, lavorazione della tomaia, assemblaggio e rifinizione
  • settore conciario: riviera, concia, riconcia, tintura, ingrasso e rifinizione
  • settore divani: concia, lavorazione del poliuretano, assemblaggio di fusti, taglio della pelle e del tessuto, assemblaggio e rifinizione

Al fine di dissolvere alcuni dubbi dovuti alla sovrapposizione di norme e di interpretazione delle stesse sul tema della provenienza, ecco in conclusione cosa è bene sapere quando si legge l’etichetta.

Nonostante l’uso improprio che spesso viene fatto della locuzione “Made in Italy”, essa sta ad indicare un concetto – di natura principalmente doganale – disciplinato direttamente a livello di istituzioni dell’Unione Europea. Si può apporre la dicitura “Made in Italy” su un prodotto, senza incorrere nel reato, solo e soltanto quando il prodotto è stato interamente ottenuto in Italia o quando ha subito in Italia una fase di lavorazione sostanziale. Queste disposizioni sono valide allo stesso modo in tutta la Comunità Europea secondo il Regolamento CEE n. 2913/1992.

Ne consegue che l’importatore/produttore potrà, all’atto di importare prodotti da Paesi extra U.E., ad esempio la Cina, non specificare il luogo di origine del prodotto e presentare all’autorità doganale un’attestazione con cui si impegna a regolarizzare la merce al momento della commercializzazione, con le precise informazioni per il consumatore.

Quanto riportato finora, sebbene riassuntivo, costituisce il nucleo dei “doveri” che i produttori di abbigliamento hanno nell’informare il consumatore. Tuttavia rimangono scoperte delle zone grigie che pure in quantità minore possono avere una certa influenza.
In primo luogo, il fatto che i prodotti “Made in” possano essere realizzati parzialmente in altri Paesi lascia aperto il dubbio che le risorse utilizzate vengano selezionate per la loro convenienza, sia per quanto concerne i materiali sia per la qualità e sicurezza dell’ambiente di lavoro. Sfortunatamente per i consumatori è difficile venire a conoscenza dei dettagli produttivi di ogni singolo passaggio lungo la filiera. Quello che si può fare è in ogni caso rimanere informati sulle policy dei marchi, leggendo le loro dichiarazioni ed utilizzando strumenti di recensione come Rank A Brand, presso i quali sono disponibili in molti casi i report aziendali.
Un altro dettaglio che non sembra essere preso in considerazione dalla legislazione è la produzione delle etichette fisiche e dei cartellini, il più delle volte composti da diversi materiali e lavorazioni (tessuti, nastri, cartone, spille, ecc.). Anche in questo caso è parecchio difficile tracciare la provenienza e l’impatto di questi elementi, che rientrano sostanzialmente nel packaging; allo stesso modo quindi dovremo affidarci alla valutazione delle policy dei brand e delle loro dichiarazioni in materia di sostenibilità ambientale e welfare dei lavoratori. Difficilmente un produttore che offre vestiario sostenibile sceglie di etichettarlo con un prodotto scadente ed inquinante.

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